Per la possibilità di partecipare con questo contributo alla riflessione sulla formazione in azienda1, devo ringraziare chi vede in me più di quello che ci veda io. Credo che sia una delle prerogative di chi si dedica alla formazione, formatori aziendali, piuttosto che insegnanti di scuola; ossia riuscire ad avere una fiducia illimitata nel potenziale umano e a possedere un connaturato istinto allo stupore e alla meraviglia. Quella categoria di persone che saranno l’antidoto alla constatazione di G.K. Chesterton che “Il mondo non perirà per mancanza di meraviglie ma per mancanza di meraviglia” [i], a cui aspiro di appartenere da tanto.
Tuttavia, sono nel mezzo del cammino, fra vari stop e rimandi ma mai rinunciataria.
Proverò a fare un quadro di come vedo la formazione e la sua realtà nel mondo del Retail, per quanto non abbia sperimentato ogni ambiente e situazione possibile.
Quando ho iniziato ad avere la responsabilità diretta di una squadra, ormai 20 anni fa, esattamente Marzo 2003, la metodologia del Coaching era un approccio strutturale nel mio modo di lavorare con i collaboratori. Era il metodo che l’azienda ci aveva insegnato ad usare nel fare management: lo sviluppo delle competenze dei collaboratori era un obiettivo qualitativo costante per ogni manager; non necessariamente mirato alla crescita verticale, sicuramente a quella orizzontale.
Formare, informare e sviluppare. Credere nella possibilità di ciascuno di evolvere nella propria professionalità e diventare trampolino e supporto per queste evoluzioni.
Era, altresì vero che, come diceva una mia vecchia direttrice RH (e non solo lei): “hai l’impegno di portare l’asino alla fonte, ma non è detto che si abbeveri”.
E qui il limite/opportunità: ognuno è libero di scegliere quanto svilupparsi, fino a che punto e con quale obiettivo.
Quando ho cominciato a investire sulla mia formazione, ma, in realtà, già da quando ho iniziato a conoscere altre realtà aziendali, la domanda sopravvenuta è mutata: MA SIAMO DAVVERO COSÌ LIBERI DI SCEGLIERE?
Le aziende hanno davvero la libertà di scegliere se curare o meno la formazione della propria comunità?
La scelta di disinvestire proprio nella formazione, è stata la strategia più oculata e lungimirante in questi anni di crisi?
Perché nel PNNR resta determinante l’investimento in formazione?
Questi anni di crisi del mercato, fra una vicissitudine e l’altra, hanno portato a vedere aziende chiudere, ristrutturarsi, diventare scenari di lotte intestine pari solo alla lotta per la sopravvivenza nella giungla; piuttosto che alla costruzione di gruppi di influenza legati solo da principi di solidarietà contro l’imprenditore assetato di dipendenti da eliminare per controllare i costi.
Questi sono stati anni che hanno visto la necessità di affrontare contesti instabili, incerti, ambigui e complessi. Il bisogno di adattarsi o creare cambiamenti funzionali hanno richiesto capacità di adattamento e cambiamento, spesso troppo veloci o inaspettati. La necessità di controllare e contenere i costi ha portato a una presenza della formazione che si è pressochè azzerata nelle realtà medio-piccole, in virtù dell’atteggiamento di volere una attività immediatamente fruttifera di risultato (cosa fisiologicamente impossibile per le condizioni di contesto esterno).
Un contesto che esigeva spirito di adattamento, creatività, capacità di analisi e comprensione, sviluppo di competenze trasversali e non più tecniche, sviluppo di competenze nuove per dipendenti in ricollocazione, rotazione veloce di personale temporaneo, etc. ha visto contrarsi in quantità e qualità l’unico strumento che poteva essere via maestra per affrontare al meglio questo passaggio sistemico.
Il mondo aziendale si è saturato di Yes Man a cui non si chiedevano particolari competenze e capacità di analisi e creatività, bensì attitudini ad allinearsi acriticamente.
E pur tuttavia, la formazione, intesa come strumento principe nel “dare forma”, tecnica e ideologica, alla collettività aziendale, è stata ugualmente accantonata.
Forse avere persone più “skillate” non avrebbe portato a un recupero più veloce del mercato ma, sicuramente, avrebbe contribuito ad una maggiore qualità e benessere negli ambienti di lavoro, già abbastanza provati.
Il sortire dalla spirale negativa dei mercati ha fatto riemergere la necessità di rivalorizzare competenze ma anche talenti e creatività per sostenere la ripresa. A questo si è aggiunta la necessità di integrazione fra generazioni, non meno importante ai fini della ripresa e del benessere percepito negli ambienti di lavoro.
In questo periodo di svalorizzazione della funzione, tuttavia, non si è fermato il fervore del settore. Esso, infatti non solo si è arricchito di nuovi approfondimenti ma anche di nuovi strumenti e processi: la digitalizzazione e la nascita di applicazioni e programmi per le attività a distanza hanno offerto nuove prospettive e opportunità di assicurare il processo formativo ma anche di contenere i costi e ottimizzare i tempi.
Oggi, nel tentativo di restare a galla, rispetto a scenari che continuano a soffrire stop di vario genere, credo che la domanda si ponga prepotentemente: L’AZIENDA È COSÌ LIBERA DI SCEGLIERE SE PROVVEDERE A FORMARE O MENO I PROPRI COLLABORATORI?
O, piuttosto, non sia ormai una scelta illusoria?
L’importanza di rimanere efficaci in scenari sempre più instabili e cangianti;
La necessità di aggiornare competenze e farne esprimere di nuove;
La necessità di fornire e/o allenare competenze di analisi e creatività a ciascun collaboratore per far fronte a situazioni di ogni tipo;
Il bisogno di migliorare efficacia ed efficienza ma anche benessere ambientale;
Può convivere ancora con l’idea che la formazione sia un evento accessorio, saltuario e/o occasionale o, piuttosto, non sia una attività che deve diventare parte integrante dell’attività lavorativa?
Tutte queste riflessioni mi portano a chiedermi se l’unica vera scelta non sia COME, CON CHI E QUANDO?
E’ corretto aspettarsi che l’azienda si faccia carico di offrire gli strumenti per sviluppare la propria collettività, sia come individui che come comunità?
In un’ottica di miglioramento della possibilità di contribuire alla vita aziendale ma anche e soprattutto di migliorare la propria percezione della qualità dell’esperienza professionale stessa, è lecito attribuire all’azienda l’onere di investire nella formazione tecnica e trasversale dei propri componenti, così da contribuire a costruire un ambiente e scenari interessanti e motivanti, rispetto a interessi, talenti e aspettative?
Altro aspetto funzionale alla solidità aziendale è quello di fornire strumenti e occasioni per far emergere capacità e talenti che potrebbero tornare utili nei frequenti e repentini cambiamenti di scenari cui siamo stati ormai abituati da pandemia, guerre, ed eventi a scala globale.
Ultimo ma non secondario effetto (che sicuramente non piacerà ai fautori della formazione come produttrice di risultato immediato) è quello di costruire cultura e conoscenza, con l’auspicio che porti ad una maggiore apertura mentale nei confronti di situazioni, idee, proposte e scenari che permettano alle aziende di essere sufficientemente flessibili e capaci di rispondere alle evoluzioni portate dalle “intemperie” del mercato globale. E rimanere maggiormente efficaci e in grado di sostenersi e resistere sul mercato.
Ritengo, per mio modestissimo e personalissimo parere, che la Formazione vista come elemento strutturale dell’attività lavorativa si possa porre anche come Vaccino all’Era degli Yes Man che nessun valore aggiunto hanno portato agli ambienti in cui hanno proliferato, comportando danni alla efficienza e alla efficacia dei sistemi aziendali.
In queste riflessioni di un ventennio di passione per la formazione, scivolata nel panegirico della stessa, quasi come farmaco salvavita, resto con i piedi ben piantati a terra, grazie all’influenza positiva di aver imparato questo lavoro da professionisti che si misurano con le realtà produttive e i committenti quotidianamente.
Il loro maggior pregio è stato quello di insegnare il mondo della formazione, non solo attraverso teorie e studi di tomi su tomi, ma avermi introdotto anche all’autoriflessione, all’autocritica e all’autoironia grazie al confronto diretto con loro.
Vorrei chiudere questo contributo, con il richiamo ad una frase letta nel libro “Stupidità e formazione” di Massimo Bellotto che recita
“La stupidità del formatore dipende da vari fattori tra i quali l’ignoranza, la paura, l’abitudine e la fretta. Ma nessuno è perfetto: non possiamo pretendere che sia sempre colto, coraggioso, innovativo e calmo. Possiamo invece pretendere dal formatore che sappia quel che sta facendo, cioè che sia consapevole di quale è lo scopo del suo agire. Mi riferisco a un aspetto essenziale della formazione, non certo superfluo, cioè alla DEFINIZIONE DEGLI OBIETTIVI” (maiuscolo del Ndr).
Dove il termine stupidità va inteso nell’ accezione di ottusi e reiterati comportamenti disfunzionali e non in quello positivo di capacità di stupirsi e meravigliarsi per contesti, esigenze, necessità di integrare, aggiornare e contaminare contenuti e situazioni diverse per offrire ai destinatari e ai committenti il contributo più efficace e funzionale possibile.
Questo è l’augurio che faccio a me e a chi pensa che “insegnare” non sia per chi non sa fare, bensì per chi vuole fare il mestiere di sostenere gli altri nello sviluppo di sé stessi.
Infatti saper fare è sicuramente importante per conoscere il COSA. Avere esperienza diretta di quello che si insegna, può dare un valore aggiunto contenutistico ed emozionale del PERCHE. Saper insegnare e trasmettere tutto questo, rendendolo funzionale allo sviluppo di chi ascolta, necessita lo studio del COME si insegna.
[i] Dal libro”la stupidità strategica” G. Nardone, Ed. Garzanti, 2021
- Pubblicato su AIF News di Novembre 2023
https://staging.associazioneitalianaformatori.it/2023/10/27/la-formazione-come-porto-cui-approdare-e-da-cui-ripartire/ ↩︎